Il mare impossibile per le persone con disabilità. Le storie di Laura, Ginevra e Valeria: “Spiagge attrezzate solo sulla carta e rampe ostruite”

In Italia dici “estate” e pensi al mare. Un collegamento diretto, quasi ovvio. Per molte persone con disabilità, però, la spiaggia è ancora un percorso a ostacoli fatto di sabbia che sprofonda, rampe ostruite, servizi che sulla carta esistono ma nella realtà non funzionano. Le storie di Laura G., Valeria S. e Ginevra C. – tre voci diverse per area del Paese, condizioni e bisogni – compongono un quadro preciso: l’inclusione balneare è una questione di diritti. E oggi quei diritti, troppo spesso, vengono disattesi.
Laura è la madre di Giovanni, nato nel 1987 con una paralisi cerebrale che ha comportato la tetraparesi spastica “A detta dei migliori specialisti, mio figlio non avrebbe mai neanche camminato né parlato”, racconta. Invece Giovanni ha imparato anche a nuotare, e in acqua si sente libero. Una libertà che, però, per due genitori ultra settantenni pesa come una zavorra. D’estate la famiglia, originaria di Livorno, si sposta a Tirrenia “dove c’è la sabbia”, ma – dice Laura – “nessuna spiaggia del litorale è attrezzata”. Neppure nella città di residenza le spiagge libere offrono soluzioni. Il risultato è un paradosso, per fare un bagno devi bussare ai privati, pagare l’accesso dell’accompagnatore e sperare che le barriere architettoniche non trasformino la giornata in una prova di forza. “Non è giusto che una famiglia con disabilità debba rivolgersi a stabilimenti privati – insiste Laura – le strutture attrezzate esistono, ma troppo spesso non sono alla portata di tutti i portafogli”.
Valeria, mamma di una ragazza con disabilità complessa, parla della situazione a Marina di Pisa con “il dente avvelenato”. La sua fotografia è cruda e riporta un’unica spiaggia attrezzata, con rampe di accesso trasformate in parcheggi per distratti e un’idea di inclusione “solo a parole”. E quando prova ad andare al mare con tutti i figli al completo si scontra con un altro muro, vale a dire l’assenza di aiuti nel mese di agosto. “In estate non trovo nessuno disposto ad aiutarmi con mia figlia disabile, non importa quanto sia disposta a pagare. Gli stabilimenti sono pochi, se fai una segnalazione ottieni controlli da parte delle forze dell’ordine ma non vedi mai provvedimenti concreti. Quando mia figlia era piccola la portavamo in braccio, rischiando grosso perché sulle scale o sui terreni accidentati si può facilmente cadere. Ma ora è grande e il suo sistema posturale è pesantissimo”. Ecco allora che la famiglia è costretta a dividersi, con turni forzati che vedono il papà al mare insieme ai bambini normo dotati e la mamma a casa con la figlia disabile fino a sera. “Io non posso scegliere, sono costretta”, dice Valeria. Una frase che ritorna spesso nelle storie di disabilità: costretti, non per mancanza di desiderio ma per assenza di condizioni.
Ginevra vive a Roma, e da quando è seduta su una carrozzina – vale a dire da dodici anni a questa parte – al mare non ci è proprio andata più. “Mezza volta ci ho provato, poi mi sono arresa”, spiega. Anche perché nel suo caso il problema di salute è doppio, respiratorio e deambulatorio, insorto dopo lunghe cure ospedaliere. Per lei che vive sola, la barriera non è soltanto la spiaggia, ma la città stessa: marciapiedi senza scivoli, buche, biciclette, vetri e rifiuti che ostruiscono il passaggio, metropolitane senza ascensori, mezzi pubblici troppo affollati per accogliere una persona con disabilità. “Alla fine, il mio raggio d’azione si restringe al quartiere. Gli stabilimenti attrezzati forse ci sono anche, ma se come nel mio caso non hai un’auto né nessuno che ti accompagni, restano solo punti su una mappa che non raggiungerai mai”.
Tre storie, un solo messaggio: l’accesso al mare non è solo questione di passerelle e sedie da spiaggia. È un ecosistema di servizi, trasporti, costi, regole e, soprattutto, impegno e comprensione da parte di tutti. Le passerelle servono se portano davvero alla riva, non se finiscono nel nulla; le “job” (sedie anfibie) aiutano se qualcuno è formato per usarle; le rampe funzionano se non vengono occupate da bici e altri ingombranti; i bagni accessibili sono tali se tutti se li possono permettere; l’accompagnatore è parte della soluzione, non un biglietto in più da pagare. È qui che la retorica dell’inclusione si schianta, se per entrare occorre un pedaggio economico, logistico e culturale, allora diventa solo sinonimo di esclusione gentile.
C’è anche un tema di distanze e di geografie. Valeria lo dice chiaro: “In Riviera Romagnola la situazione è migliore”, ma per sua figlia quelle ore di viaggio in più sono sostenibili. Poi c’è il nodo invisibile e potentissimo degli accompagnatori. In agosto, quando molti servizi si fermano, la disabilità non va in ferie. “Non servono proclami ma solo scelte chiare – dichiara Valeria -. I comuni devono garantire almeno un tratto di spiaggia libera realmente accessibile – non sulla carta – con passerelle fino alla riva, sedie anfibie disponibili e personale formato per l’assistenza. L’ingresso dell’accompagnatore deve essere gratuito ovunque sia necessario e le forze dell’ordine devono intervenire perché tutto questo venga rispettato. Abbiamo bisogno di collegamenti pubblici accessibili, navette estive che portino dal centro alla spiaggia con fermate attrezzate. Le capitanerie e le polizie locali devono far sì che rampe e stalli non diventino parcheggi, e anche il mondo dei privati può fare la sua parte, non solo per generosità ma per responsabilità sociale: abbattere barriere, rivedere le tariffe, misurare l’accessibilità con standard trasparenti”.
Infine, c’è qualcosa che riguarda tutti noi. Se una rampa è libera o ostruita lo decidono le nostre abitudini. Se un varco viene rispettato o ignorato lo decide la nostra idea di cittadinanza. Valeria dice con amarezza “Alla gente non interessa avere rispetto dell’altro, né nella normalità tanto meno nella malattia”. E finché Laura dovrà scegliere tra un bagno e un ticket in più, finché Valeria dovrà dividere la famiglia per “fare i turni” e Ginevra resterà confinata nel quartiere perché la città finisce dove iniziano i gradini, il mare rappresenterà un confine. E un confine, per definizione, separa. L’estate al mare, in un Paese circondato dall’acqua, non deve essere un privilegio.
Luce